venerdì 5 novembre 2010

Il 2 Novembre a Terlizzi

E' un mistero tutto ciò che vive e muore nel creato. Di fronte alla morte l'anima dei nostri progenitori si riempiva di una nuova misteriosa paura: cosa è la vita?...Una speranza continua?...Un'illusione eterna?....Un sogno morente?...
Il nostro popolo ha cercato nel tempo le sue certezze e ci ha tramandato le sue risposte: sìm nòddə mùrtə; mén də nùddə sènz'u arrecùrdə (siamo niente dopo morti; meno di niente senza il ricordo).
Allora è dovere ricordare e, da tempo immemorabile, ci indicano come. Un tempo non c'era il Camposanto ed i morti si seppellivano negli "ossari" delle chiese. Non si usavano neanche le bare individuali ed ogni morto veniva trasportato in una cassa comune, portato a spalla da 4 persone di riguardo, scelte dalla famiglia. Per le fanciulle era d'obbligo che i 4 fossero celibi. Di qui un'antica e mesta canzone terlizzese: vulàiə murèiə, p sci 'ngùddə, àllə vacandèiə (voleva morire, per essere trasportata dai celibi).
Il corteo funebre era una vera e propria processione con le candele accese. In chiesa dopo la messa, il rito funebre si concludeva con la discesa del corpo del morto dell'ossario comune a tutti i parrocchiani, salvo i ricchi ed i nobili che avevano le loro cappelle o altari di famiglia all'interno della stessa chiesa. L'ossario comune consisteva in un ampio, chissà quanto tetro, "stanzone" con sedili di pietra lungo le pareti ed il "compare della ginocchiata", una persona di riguardo scelta dai famigliari del morto, dava, appunto, una ginocchiata al corpo perché rimanesse seduto accanto agli altri defunti. Pare che poi il corpo venisse ricoperto di calce e l'ultima operazione fosse la "incalciatura" : è questo l'antico nome della più recente "quarticèddə" che veniva mangiata in campagna, il giorno dei morti, nella pausa pranzo, la "murènnə" dei nostri contadini.
La mattina presto di ogni 2 novembre, da secoli ormai, i terlizzesi si alzavano, come al solito, per andare a lavorare nei campi. Verso le 3 di notte andavano in chiesa, assistevano alla messa ed all'officio dei morti e portavano con , nella bisaccia, la "incalcinata" o la "quarticèddə" invece del consueto "checùzzuə", la parte estrema della "sckanàta" o di altra forma di pane antico, cui si toglieva un po' di mollica, si farciva di ricotta e veniva poi richiusa, come un tappo, dalla mollica rimossa prima. La "incalcinata" era un pane dalla forma antichissima, conservata ancora oggi nel nostro "pizzarìddə" ed è un inno alla vita cantato dalla nostra gente proprio nel giorno dedicato ai morti. La "vescica piscis" è il simbolo della vita che continua, nonostante la morte, perché la natura ha eterne le sue primavere...
Il pane, da sempre, ha rappresentato la vita per il corpo e, per estensione, il corpo stesso.
La "incalcinata" deriva dalla farcitura con ricotta "asckuàndə", quasi un "imbiancare di calce", un "purificare" un corpo che potrebbe diventare immondo per malattia o per morte, E' questo il modo scelto dei nostri progenitori per esorcizzare la paura della morte. La "quarticèddə", più recente, prende il nome dalla quarta parte del peso che aveva il pane comune, confezionato in casa, dalla nostra gente.
Questo è un tipico pane votivo che sopravvive "incorrotto" da un pre-cristiano culto per un'antica dea dell'abbondanza e della fecondità.
La ricotta inforcita, usata come farcitura, oltre all'analogia con la calce, viene ulteriormente condita con peperoncino o pepe ed alici per dare più vitalità alla riuscita della colazione.
Poiché la "quarticèddə" non era certo la colazione adatta per i bambini, i nostri saggi progenitori preparavano loro la "còlv" (un dolce al cucchiaio). La "còlv" è, quasi sicuramente, un'usanza
ereditata dai cristiani di rito greco.

Testo di Olga Chiapperini
Foto do Francesco De Nicolo

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